Aldo Grasso

ALDO GRASSO

E’ ben raro che un settimanale italiano, e per un numero così alto di anni (almeno dal 1954 al 1974), abbia potuto contare su collaboratori tanto prestigiosi quanto eterogenei per formazione culturale, per appartenenza politica, per stile di scrittura. Basta scorrere l’indice dei nomi. Si va da Franco Antonicelli a Emilio Radius, da Achille Campanile a Corrado Alvaro, da Angelo Maria Ripellino a Sergio Saviane, da Maria Luisa Spaziani a Giorgio Bocca, da Natalia Ginzburg a Carlo Bo, da Bruno Migliorini a Geno Pampaloni, da Carlo Emilio Gadda a Orio Vergani, da Umberto Eco a Furio Colombo, e la parata (o rivista) potrebbe continuare per lungo tempo. Certo, la collaborazione era di tipo occasionale, di quelle che si definiscono “di prestigio”, di quelle che si accettano perché, innanzi tutto, sono retribuite, ma alla fine i conti tornano lo stesso. Per molti anni il Radiocorriere è stato una1 frequentata palestra di grandi firme, un luogo d’incontro anomalo e trasversale, un albergo del libero scambio di idee, una vera rassegna di pareri. Il Radiocorriere prima si chiamava Radio Orario. Dal 5 gennaio 1930, il glorioso settimanale della radio muta formato e sede, trasferendosi da Milano a Torino, in via Arsenale 21. Nel primo numero, Arnaldo Mussolini, vicepresidente dell’Eiar e direttore del Popolo d’Italia, porta il saluto augurale. Il fratello del Duce indica i compiti pedagogici della radio che definisce “una cattedra”: “Oggi la radio deve obbedire a dei criteri rigorosi di responsabilità e bisogna che i suoi sviluppi prodigiosi siano seguiti e controllati attentamente… Essa deve istruire divertendo, ma deve farlo sempre con vigile attenzione…Il Radiocorriere è un po’ l’intelaiatura della radio nel suo cammino”. Dal 3 gennaio 1954 il Radiocorriere diventa l’intelaiatura della televisione nel suo non facile cammino di conquista dell’Italia e l’editoriale di salto tocca a Salvino Sernesi, allora direttore generale della Rai, Radio Audizioni Italiane. Sernesi proviene dalla Sip, Società Idroelettrica Piemonese, la prima compagnia telefonica italiana; al suo fianco siedono molti quadri provenienti dall’Eiar, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, a rappresentare la continuità aziendale tra il periodo fascista e quello post-resistenziale. Il Radiocorriere non ha soltanto il compito di illustrare la programmazione televisiva ma quello, ben più impegnativo, di far conoscere la televisione agli italiani, soprattutto a coloro che fanno opinione. Perché, è bene ricordarlo, agli inizi della televisione sono pochi coloro che possiedono un apparecchio televisivo, un’èlite per censo e formazione. Nel commentare il ruolo svolto da Radio Orario, così come dal britannico Radio Times di proprietà della Bbc, Peppino Ortoleva individua giustamente alcuni compiti fondamentali di quegli organi ufficiali della radio: “In estrema sintesi, possiamo parlare di tre funzioni fondamentali. In primo luogo, questi gironali erano un house organ, uno strumento di promozione delle rispettive aziende e delle loro politiche, e di diffusione mirata della loro immagine. In secondo logo, servivano a stabilire un contatto regolare con un pubblico in sé volatile, e considerato bisognoso non solo d’informazione puntuale (i programmi, che occupavano ben oltre la età della foliazione complessiva) ma anche una sorta di educazione a distanza, sulle tecniche, il linguaggio, le regole del nuovo mezzo. In terzo luogo, questi giornali erano un prolungamento nel tempo dell’esperienza, in sé effimera, dell’ascolto, lo anticipavano, al modo in cui il programma di sala anticipa e prepara l’esperienza del concerto; e ne conservavano la memoria, anche attraverso la ripubblicazione di testi, o la discussione con gli ascoltatori”.
Qualcosa del genere succede anche con il Radiocorriere. Anche il settimanale diretto da Vittorio Malinverni è prima di tutto un house organ, il giornale della mitica “via Arsenale 21, Torino”, uno strumento sinergico per unire su carta radio, televisione e pubblicità. E anche il Radiocorriere ha il compito non facile di “spiegare” i programmi; di qui l’abbondanza di notizie sull’avventurosa realizzazione dei medesimi, dove, specie nei primi anni, abbondano i toni da frontiera e da sperimentazione, e la non meno doviziosa presenza di commenti. Il commento, affidato a una “firma” conosciuta o a un professore universitario o a un uomo di scienza, ha il compito di nobilitare il prodotto offerto. E’ una sorta di voce fuori campo, asincrona rispetto alla messa in onda, un’interferenza precettistica, un intervento di pulizia nell’antro di un rigattiere. In nome di una presunta purezza della cultura alta, simultanea catarsi di tutti i nuovi media, giacimento non ancora opaco del senso di riflessione, di intervento nel sociale, si va costituendo, nei primi decenni della televisione, una produzione di piccoli saggi che, genericamente ma caparbiamente, vorrebbe prendere per mano la nuova arrivata e condurla nei rettilinei della Ragione, nelle scalate al Bene, nelle belle case dello Stile (non si pensava ancora, sulla scorta di quanto avrebbe poi teorizzato Marc Fumaroli, che la televisione stava semplificando e indurendo “fino alla caricatura i tatti peggiori di quello che Montesquieu chiamava “lo spirito generale” di un popolo”. La vera missione del Radiocorriere è quella di legittimare il nuovo mezzo agli occhi degli intellettuali che parevano non mostrare troppe attenzioni e simpatie per l’intruso. E scopo principale di quest’antologia è proprio quello di svelare i modi di questo processo di legittimazione, di questa battaglia contro la diffidenza degli intellettuali, di questa nascita di un pensiero “intorno” alla televisione. Tenendo sempre presente, come già dimostrato anni fa nella ricerca Televisione: la provvisoria identità italiana, che la televisione italiana nasceva su solide basi umanistiche, con un gruppo dirigente, prima laico e poi cattolico, decisamente colto, di estrazione letteraria, attento a una produzione media di livello alto. Rivedendo i frammenti, i risicati brandelli di quella televisione delle origini (pratica che molti studiosi dell’avvento della televisione in Italia ritengono pressoché superflua) si riesce a ricostruire l’imprinting della Rai delle origini. Una delle più grandi preoccupazioni di quei dirigenti è stata quella di usare il nuovo mezzo come uno strumento di promozione culturale; nelle loro intenzioni la televisione avrebbe dovuto sostituire, almeno in parte, i libri scolastici, le letture “obbligatorie”, i classici della letteratura di ogni tempo. Molti programmi – riduzioni teatrali, sceneggiati, rubriche – nascevano con questi scopi pedagogici e divulgativi: dalle risposte del prof. Cutolo ai Promessi sposi, dall’appuntamento con la novella di Giorgio Albertazzi a programmi critico come L’Approdo.
Insomma, Il Radiocorriere, non schierato ma rispettoso dell’accademia, non organo di una “battaglia delle idee” ma propugnatore di idee, si rivela un ottimo strumento di pubbliche relazioni con il mondo della cultura. Perché uno dei grandi crucci della televisione delle origini è proprio il rapporto, fatto più di incomprensioni che di concordanze, con gli 1intellettuali. Colpa della televisione se la gente, secondo Luciano Bianciardi, “non ha più modo e tempo e voglia di guardare in faccia la realtà vera”. Riprendendo una distinzione già presente nel mio saggio Vedere lontano, Fausto Colombo raccoglie l’atteggiamento degli intellettuali nei confronti del nuovo mezzo in tre filoni.
1) Rifiuto del medium. A demonizzare la televisione, in genere, sono gi intellettuali di sinistra, anche se il fronte di rifiuto è piuttosto articolato: va dalle posizioni critiche della stampa comunista a quelle ben più sottili e penetranti che si rifanno alla Scuola di Francoforte.
2) Trasformazione del medium in un progetto culturale. E’ quanto fa il gruppo di cattolici riuniti attorno all’amministratore delegato Filiberto Guala, a Mimmo Gennarini e ai cosiddetti “corsari”. Ancora oggi la sinistra, in vari interventi, fatica ad ammettere che una parte rappresentativa del pensiero cattolico sia stata così lungimirante nel campo delle comunicazioni di massa.
3) O scettici o settici. La terza posizione è quella riconducibile al gruppo di comunità di Adriano Olivetti e all’area del capitalismo illuminato. Come scriveva Renato Soluni: “La democratizzazione e universalizzazione apparente – nei gusti, nelle occupazioni e negli interessi – che la televisione ha prodotto con i suoi mezzi e con le sue tecniche è, in realtà, il suo vero contenuto”.
Certo, in questa temperie culturale, stupisce non poco l’ideologia del rifiuto espressa dalla sinistra (celebre l’affermazione di Alberto Moravia: “Il pubblico della televisione è un pubblico di serie B”) e riassunta con efficacia da Francesco Pinto: “Non sfugge l’evidente tentativo di “demonizzazione” a cui il ceto intellettuale tenta di sottoporre il medium ma, si sa, è questo il primo passaggio su cui si costruisce, di solito, l’esorcizzazione del diverso, dell’altro da sé, mentre si confessa, implicitamente, l’incapacità strutturale a decifrare, dietro la fenomenologia, lo Spirito del Capitale. Mente infatti, nel cinema è ancora possibile pensarsi nell’ambigua dimensione del prodotto d’autore…. La televisione, a partire dalle sue “grossolane” caratteristiche, liquida programmaticamente questa illusione, sconvolge le regole del gioco, demistifica l’ideologia del “messaggio”. Per questo risulta un po’ affrettata, “a maglie larghe”, la conclusione di David Forgacs secondo cui anche i cattolici hanno tentato di esorcizzare la moderna cultura di massa “per via di imposizioni di codici restrittivi”. La sinistra, ancora oggi, fa una fatica enorme ad ammettere di aver sottovalutato il fenomeno televisivo (cosa che, invece, non fece la parte più dinamica della cultura cattolica ed è scorretto confondere le intuizioni di Mimmo Gennarini, Mario Apollonio, Federico Doglio con alcuni interventi dell’Osservatore Romano o con le prediche di Padre Lombardi). Di ben altro spessore, invece, è l’elaborazione teorica di chi, rifacendosi alla scuola francofortese, vede la nascente industria culturale come fonte di massificazione e volgarità e individua come “vero contenuto della televisione” la sua spinta verso “l’universalizzazione apparente” dei gusti, delle occupazioni, degli interessi (temi questi che saranno poi ripresi e drammatizzati da Pier Paolo Pasolini). La televisione delle origini ha sovente provocato e prodotto un travaso brusco e farraginoso di patrimoni culturali e spettacolari, spesso incompatibili con il nuovo mezzo, tale da creare situazioni di “confusione” linguistica. Eppure, proprio in quegli anni, la televisione ha acquisito delle caratteristiche che formano tuttora il suo Dna. E proprio il Radiocorriere ha tentato di cogliere questa “confusione” (ibridazione, contaminazione, meticciato) e di darle, secondo descrizioni anche erudite, un senso.
L’enclave del pezzo d’autore
La Rai, prima di allinearsi definitivamente ai modelli dell’industria culturale, ha voluto attribuirsi l’immagine di un serbatoio di diffusione della cultura tradizionalmente compartecipata da un’élite. Questa scelta è derivata, in buona parte, dalla formazione dei suoi programmisti e dei suoi autori: la programmazione della Rai si è quasi sempre svolta in un’ottica pedagogica, rinforzata dalla situazione monopolistica, per cui i suoi operatori culturali si sono immediatamente trasformati in divulgatori, un poco per convinzione e un poco per il desiderio di ricrearsi un ruolo di credibilità, dopo aver abbandonato, per “entrare in Rai”, università o case editrici. Ecco perché c’era una certa facilità ad avere contatti con i protagonisti della cultura, a richiedere loro un pezzo per il Radiocorriere. Ma c’è una ragione più profonda ed è l’idea stessa di cultura che hanno i dirigenti della Rai. La comunicazione popolare, cui la televisione appartiene a pieno titolo, è sempre una “corruzione”, un recupero, un’applicazione su vasta scala di un tipo di cultura più colta e alta. Come ha insegnato Emilio Cecchi a proposito della poesia popolare: “Non dall’arte corriva, approssimativa, popolaresca, si produce insomma, per graduali raffinamenti e abbellimenti l’arte superiore. Ma sono i frantumi di questa, i suoi adattamenti, che vengono utilizzati e travolti, anche senza più memoria dell’origine, agli usi popolari”. Questa idea è corroborata da quanto già si intravede in altri settori della nascente industria culturale: l’apparente consenso generalizzato nei gusti e negli interessi porta di fatto alla neutralizzazione dei medesimi. Di qui l’idea di mantenere vivo il contatto con il mondo della cultura e di utilizzare il Radiocorriere come una sorta di viatico di accompagnamento, come un breviario della buona visione, come un libretto d’istruzioni e di approfondimenti rivolto a chi vuole saperne di più.
Da “Schermi d’autore”, intellettuali e televisione - Edizioni ERI RAI